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Francesco Marco Aresu, <em>Manuscript Poetics: Materiality and Textuality in Medieval Italian Literature</em>.: Manuscript Poetics (Signorini)

Francesco Marco Aresu, Manuscript Poetics: Materiality and Textuality in Medieval Italian Literature.
Manuscript Poetics (Signorini)
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Francesco Marco Aresu.
Manuscript Poetics. Materiality and Textuality in Medieval Italian Literature.
Notre Dame, IN: University of Notre Dame Press, 2023. 528 pp. $65.00.

Il libro di Marco Aresu ci presenta il risultato di un lavoro di grande interesse e piuttosto complesso sotto l’aspetto metodologico, sia perché utilizza strumenti di analisi che gli provengono da ambiti disciplinari diversi, sia perché li mette a frutto concentrandosi su un arco cronologico decisivo per l’affermazione della produzione letteraria in Italia, il Trecento, e sui suoi massimi rappresentanti: Dante, Boccaccio e Petrarca.

E proprio come nella petrarchesca canzone 70, A. ci presenta nella sua densa introduzione quale siano i suoi riferimenti culturali che pongono questo studio “at the intersection of medieval Italian literature, literary theory and criticism, material philology, manuscript studies and book history”: David M. McKenzie (ogni aspetto del libro contiene un valore semantico); Jerome McGann (tanto la presentazione del testo quanto il portato linguistico hanno significato); H. Wayne Storey (iniziatore del concetto di visual poetics); e infine Armando Petrucci (padre degli studi sulla scrittura e sul libro d’autore). L’intrecciarsi di queste quattro diverse prospettive metodologiche – che però, mi pare, hanno in comune una concezione del libro nella quale la parte materiale, di manufatto, e quella testuale, incorporea, costituiscono i due aspetti ugualmente significativi di un progetto culturale comune – portano A. a puntualizzare il suo stesso sottotitolo nel quale “the terms (…) ‘materiality’ and ‘textuality’ do not merely complement each other; in rhetorical terms, the dicolon they form may be best intended as hendiadys (‘materiality and textuality’ mean ‘material textuality’) or as the expression of a hypostatic union (in which materiality and textuality are different modes and manifestations of a unique substance)” (p. 11).

Le finalità della ricerca, dunque, sono quelle di indagare le strategie autoriali messe in atto per la realizzazione di un oggetto materiale in forma di libro che potesse rappresentare la proposta di una specifica opera letteraria, inserendosi (o meno) all’interno di usi grafico-codicologici condivisi, almeno in determinati ambienti; ovvero, anche, come tali strategie siano state recepite o ignorate, adattate o stravolte dalla tradizione manoscritta che ne è seguita. In questo secondo caso, perciò, le variazioni potranno essere considerate quali testimonianze di uno scarto nella fruizione di una determinata opera dovuta alla circolazione in tempi, aree, ambienti diversi.

Per entrare più nel vivo, conviene ora spiegare la struttura del libro che, se si escludono introduzione, conclusioni, bibliografia e indice dei nomi e delle cose notevoli (ma forse sarebbe stato più opportuno che l’indice dei manoscritti citati fosse separato), è essenzialmente suddivisa in tre parti, ciascuna dedicata a un diverso autore e opera: Materiality as Narrative in Dante’s Vita nova (pp. 25-137);  Materiality and Authority in Boccaccio’s Teseida (pp. 141-220); Materiality and Poetics in Petrarca’s Sestinas (pp. 223-304).

È evidente che nel caso di Dante, non possedendo noi oggi (o non riconoscendo) alcun suo autografo, si rende necessario un approccio in parte diverso che sottilmente emerge già dal titolo Materiality as Narrative: nei primi due capitoli della prima parte (Scriptor in fabula, pp. 25-58 e The Author as Scribe, pp. 59-101) si rileva perciò come la materialità della Vita nova sia pensata dall’autore e poi narrata tra le righe dell’opera stessa. Nel terzo capitolo, invece, The Scribe as Author (pp. 102-128) si indaga, attraverso quattro manoscritti tra i più antichi all’interno della tradizione della Vita nova, l’aderenza alle indicazioni dell’autore ovvero le scelte operate per la presentazione e fruizione di quel testo.

Tra i numerosi indizi con i quali Dante intesse la sua prima opera letteraria, tutti finemente e diffusamente analizzati da A., spicca senz’altro, per intendere come l’autore immaginasse la messa per iscritto del prosimetro, l’evocativo e originalissimo proemio nel quale come sappiamo, si sovrappone e interscambia la metafora della memoria reificata in forma di libro la quale, d’altra parte, dà luogo al libro stesso che stiamo leggendo; un libro, quello della memoria, suddiviso in parti, una breve iniziale e trascurabile, e una seconda introdotta da una rubrica; ma quella rubrica è però anche il titolo dell’opera che si vuole “assemplare in questo libello”, cioè in quello materiale che Dante ha copiato o fatto copiare e il lettore sta leggendo. Si è inferito che il libro al quale Dante sta pensando sia un libro in littera textualis, in gotica, e in effetti se ci riferiamo all’ultimo decennio del Duecento questa è la forma grafico-codicologica assolutamente predominante, anche per testi in volgare. Tuttavia Dante utilizza il termine ‘libello’, un diminutivo che allude con formula d’umiltà tanto al contenuto, quanto al formato del contenitore, un termine con il quale “Dante would materially refer to certain codicological units somewhere between single quires and compact codices” (p. 67). Un libro in ogni caso di piccola consistenza, due quinioni o due quaternioni, come è stato ipotizzato, fatto che potrebbe indicare anche l’uso, almeno nell’autografo d’autore, di una scrittura meno formale, forse corsiva. Va però ricordato che, per esempio, in varie occorrenze petrarchesche il termine libellus indica invece opere o anche libri di vario contenuto e forma, non sempre di piccole dimensioni né di forma usuale. Infine, il termine libello, se “libello refers to a self-contained material form” (p. 68), potrebbe suggerire che nella visione dantesca l’opera potesse o dovesse avere una circolazione indipendente, mentre la tradizione attesta in maniera maggioritaria la sua inclusione all’interno di opere miscellanee o antologie liriche.

Di grande interesse è pure il fatto, ben sottolineato da A., che “Dante explicitly admits to recycling poems originally written for the first donna schermo and resemanticizing in praise of Beatrice” (p. 73). Questa procedura evidenzia la possibilità di una sua prassi grafica che, per altro, conosciamo come certa nel caso delle schedule petrarchesche, e cioè l’uso di appuntare redazioni provvisorie delle composizioni poetiche su ritagli di pergamena, singoli fogli o quadernucci. Sta di fatto che “a cohesive booklet-anthology offered Dante the material form to structure and resemanticize his poetic production by selecting, ordering, emending, curating, and securing poems otherwise dispersed orally or disseminated in scattered leaves and mini-collections” (p. 72). Il processo di antologizzazione, infatti, come in altri casi grosso modo coevi non solo in area italiana ma pure francese e provenzale, permette di assicurare una migliore conservazione, perché la forma libro, come intuibile, costituisce certamente un veicolo più sicuro di trasmissione nel tempo, trovando per lo più ospitalità in biblioteche – private o di enti religiosi che siano – cioè all’interno di istituzioni deputate, appunto, alla conservazione. Naturalmente la volontà di Dante non è solo legata alla conservazione dei suoi scritti lirici, quanto piuttosto alla loro salvaguardia in un certo ordine portatore di un determinato significato biografico e letterario, assicurato dalle cuciture operate dalle parti in prosa. Un procedimento che può ben essere accostato alle due linee di trasmissione in Italia della lirica in lingua d’oc a suo tempo delineate da Gianfranco Folena, e cioè quella retrospettiva-filologica e quella biografica-narrativa. Dal punto di vista strettamente materiale va forse ricordato che l’esempio offerto dalle sillogi provenzali prodotte in Italia settentrionale mostra per le vidas e le razos l’uso dell’inchiostro rosso: le parti prosastiche e esplicative venivano dunque assimilate alle rubriche e differenziate a colpo d’occhio come qualcosa d’altro rispetto al testo lirico, come paratesto. Nella Vita nova - almeno per quanto attestato dagli antichi testimoni considerati nel terzo capitolo di questa prima parte (Laur. Martelli 12 e Chig. L.VIII.305) – la situazione si presenta in maniera diversa: qui infatti l’identico colore nero per prosa e poesia dimostra che dal punto di vista letterario la fusione concettuale tra le due parti è avvenuta. In questi due testimoni le iniziali maggiori filigranate, se si esclude la I incipitaria del libello, sono poste ad apertura dei componimenti lirici, mentre le parti in prosa (Questo sonetto…) sono introdotte da segno di paragrafo rosso/blu così come accade per le strofe nel caso di canzoni. Dunque, “the codicological features in M, in fact suggest that [the] scribe (…) intends the prosimetrum to be first and foremost a poetic anthology with commentary” (p. 108), così come “the Vita nova in the quintessential Dolce stil novo manuscript is presented as a poetic anthology” (p. 112), fatto rimarcato anche dalla nuda rubrica attributiva a inizio testo, quasi fosse un singolo componimento: Dante Allaghieri. In questa prospettiva l’estrapolazione delle parti esegetiche operata da Giovanni Boccaccio nelle sue due copie autografe (Toledo Zelada 104.6 e Chig. L.V.176) potrebbe essere intesa tanto come una scelta antiquata che riconduce la parte esegetica del prosimetro a qualcosa di estraneo alla lirica, quanto invece come una scelta innovativa e coraggiosa (con Maraviglierannosi molti si apre, come sappiamo, la nota esplicativa posta in entrambe le copie) che equipara le divisioni a chiose, e in quanto tali da collocare nei margini, una veste materiale di sapore scolastico che sposta l’attenzione del lettore a considerare la Vita nova come ben altro che un libello che racconti un amore di gioventù.

Va infine ricordato che la prima parte si chiude con una interessante appendice (Pulcra metaphora de quaterno et volumine, pp. 129-137) nella quale vengono raccolti alcuni riferimenti al libro e allo scrivere presenti nella Commedia. Sebbene “a map of the Commedia’s metanarrative strategies is certainly a desideratum in Dante studies (…) this appendix – avverte A. – merely begins the exercise by illustrating similarities and consistency between the metanarrative strategies of the Commedia and those we observed earlier in the Vita nova” (p. 127).

Il quarto capitolo (Picture-Book (without Pictures), pp. 141-182), apre la seconda parte dedicata al Teseida di Giovanni Boccaccio, opera epica in ottava rima composta nei primi anni ’40, dove A. può avvalersi questa volta dell’autografo d’autore, il Laur. Acq. e Doni 325 (Aut), realizzato intorno al 1348, ma il cui testo fu poi rivisto in molti punti e l’apparato esegetico notevolmente arricchito nella seconda metà degli anni ’50. Del codice autografo A. nota che “the mise-en-page’s elegant distribution of textual and paratextual elements and the meticulous use of initials and paragraphemic signs demonstrate that Boccaccio had learned from copying different literary genres using genre-specific transcriptional forms. Aut also shows undeniable evidence that Boccaccio planned a sophisticated and rich series of illustrations” (p. 147). Dal punto di vista testuale il Teseida presenta forti debiti dalla Tebaide di Stazio, ma “Boccaccio’s imitatio is not limited to the linguistic and literary aspects of the Thebaid. He alludes to classical epic in the forms in which it is materially transmitted. The material presentation of the Teseida in Aut, in other words, alludes to the codicological features of the exemplars of Statius’s Thebaid” (p. 164), cioè, in particolare al Laur. Plut. 38.6, in parte risarcito di alcuni fogli perduti (ff. 43, 100, 111, 169) da Boccaccio stesso. I due manoscritti, infatti, condividono misure assolute non troppo distanti anche se il codice boccacciano è più grande con una taglia che si avvicina molto al confine tra medio-piccola e medio-grande, ed entrambi adottano una stessa proporzione quasi perfetta tra altezza e larghezza del foglio (0,69 la Tebaide, 0,71 il Teseida); entrambi, infine, scelgono una disposizione del testo su una sola colonna con ampi margini destinati a contenere il commento. Tuttavia mi sembra utile rilevare che nella Tebaide laurenziana la colonna di testo si avvicina molto alla piega centrale cosicché il commento si dispone sul solo margine esterno in una colonna di dimensioni quasi equivalenti (un disposizione piuttosto comune per i testi epici latini in esametri e che ritroviamo, come esempio più conosciuto, nel Virgilio ambrosiano posseduto da Petrarca), mentre nella pagina organizzata da Boccaccio la colonna di testo è disposta centralmente affiancata in maniera non sistematica sui due lati dal commento che può pure infilarsi nello spazio interlineare, anche se la differente dislocazione della glossa deriva dalla sua diversa funzione: “the interlinear glosses are mostly limited to paraphrasing single lemmas, while the marginal glosses provide a more extensive expansion on the poetic text” (p. 169). Vale la pena di riaccostare alle scelte grafico-codicologiche applicate alla resa materiale del Teseida e in particolare alla presenza del commento attraverso il quale “Boccaccio outlined an ambitious and complex book project that relocates the reading experience of classical epic to the vernacular” (p. 165), la già vista singolare procedura di separare le divisioni dal testo della Vita nova e collocarle nei margini. Tale estrapolazione, infatti, avviene nella prima copia del prosimetro (Toledo Zelada 104.6), grosso modo in parallelo con la trascrizione originaria del Teseida, cioè intorno al 1348. Questo fatto non può essere casuale e, seppure in relazione a testi di natura assai diversi, sottolinea la funzione che per Boccaccio doveva assumere il commento, e cioè quella di inserire un nuovo canone di testi volgari all’interno e secondo i modi tradizionali di fruizione della letteratura classica, nonché di mostrare la loro complessità e i diversi piani di lettura che essi potevano nascondere.

Nel quinto capitolo – The Textual Proliferation of the Teseida (pp. 183-220) – A. indaga le relazioni esistenti tra l’edizione d’autore e la restante tradizione del poema (68 mss.) seppure attraverso una selezione costituita da 5 manoscritti e 1 incunabolo, sforzandosi di cogliere “the cultural and artistic complexity that inheres in the apparently incongruous textual tradition of the Teseida” (p. 184). Una tradizione che presenta essenzialmente due forme di ricezione: di studio o di lettura; e per entrambe bisognerà tener conto se i più tardi copisti e lettori abbiano avuto accesso ad Aut e dunque abbiano fatto scelte consapevoli a riguardo del testo e della sua presentazione materiale, o se invece le copie più tarde non rappresentino linee culturali più ampie o solo diverse rispetto a quelle dell’autore, ovvero sono il frutto di un accesso a una tradizione seriore del Teseida. Vengono così indagati innanzi tutto due manoscritti (Philadelphia, Univ. of Pennsylvania, MS Codex 254, ultimo quarto del XIV secolo e Aix-en-Provence, Bibl. Méjanes, 180, sottoscritto e datato 1394) trascritti da Adriano de’ Rossi, amico e vicino di casa di Boccaccio, copie che perciò rappresentano “the product of a reader who knew Boccaccio directly and can be assumed to have actual knowledge that a commented version of the Teseida existed” (p. 195). Si tratta in entrambi i casi di libri cartacei, con testo disposto su due colonne, in mercantesca e privi di decorazione; il primo manca di commento, il secondo porta invece nelle carte finali un commento abbreviato (tramandato da altri nove esemplari) di incerta attribuzione boccacciana. Se Adriano abbia attinto o meno da uno stesso antigrafo per testo e commento o quale dei due codici abbia trascritto per primo non è possibile determinare; quel che è certo, invece, è che egli ha preparato due diverse copie (per sé o per altri?) e che il testo poteva circolare già a uno stadio alto della tradizione indifferentemente con o senza commento. Infine, i due manoscritti di mano di Adriano de’ Rossi si inseriscono e confermano la fortuna del testo in ambiente mercantile, come l’insieme della tradizione fortemente afferma. 

Vengono quindi presi in considerazione tre manoscritti (Milano, Ambr. D 524 inf., Chicago, Univ. Library, 541 e Harvard, Houghton Library, MS Typ. 227) e un incunabolo (Ferrara, Augustinus Carnerius, 1475) tutti prodotti a Ferrara tra 1431 e 1475, i quali “constitute a literary and editorial microcosm” (p. 197) attestando da un lato una ricezione cortigiana nel pieno Quattrocento padano del poema, significativamente sempre accompagnato da un commento non autoriale, dall’altro una lettura raffinata e preziosamente arricchita dalla decorazione che in qualche modo continua a riflettere l’architettura proposta da Boccaccio nella copia di sua mano.

Nei capitoli sei (Materiality and Meter, pp. 223-254) e sette (Carmina Figurata, pp. 255-304) della terza parte, infine, A. indaga sul trattamento materiale e testuale che Petrarca ha riservato al genere sestina, rappresentato da nove componimenti che in qualche modo individuano la spina dorsale portante dell’intero sistema Canzoniere. Anche in questo caso è possibile utilizzare un manoscritto (Vat. lat. 3195) espressione della volontà dell’autore, in parte autografo e in parte, come noto, idiografo. Nella cura complessiva che Petrarca ha dedicato all’ordine dei componimenti che rappresentano la sua biografia in versi, il posto dato alle sestine e la scelta materiale di isolarle dando così loro una preminenza visuale è operazione che “define[s] the sestinas as a coherent semantic unit” e dimostra “how Petrarca intended poetry – the very act of his textual enunciation – as an indissoluble unity of scribal and discursive practice” (pp. 225 e 226). A. ripercorre l’esile filo del genere sestina – Arnaut Daniel, Dante e Petrarca stesso – sia dal punto di vista dell’evoluzione metrica, sia del suo distacco concettuale e onomastico dalla canzone, sia attraverso la differenziazione, testuale e materiale, del gruppo sestine dagli altri generi metrici - così da formare un piccolo ma individuabile corpus poetico disseminato strategicamente come momento riassuntivo e meditativo. Se da un lato Petrarca rifinisce ulteriormente la regolarizzazione della sestina già iniziata con Dante, dall’altro la scelta di creare una presentazione che solo apparentemente si conforma  a quella utilizzata per i sonetti (due versi per rigo separati da un regolare spazio intercolonnare, ma, come noto, da leggere in verticale nel caso delle sestine, in orizzontale nel caso dei sonetti) è scelta che rende le sestine immediatamente riconoscibili, ne evidenzia la parola-rima, ne facilita il continuo ripercorrere visivo retrogrado e, infine, ne accentua visualmente quella coesione di gruppo costituita da echi e rimandi verbali e tematici interni. Il ‘gruppo sestine’, dunque, costituisce una “intermediate structure between the single poems of the canzoniere and the RVF as an organic structure” (p. 254). E d’altra parte questa funzione di intermediazione è assicurata anche, mi pare, proprio dalla disposizione colonnare che avvicina solo apparentemente, come detto, l’assetto delle sestine a quella dei sonetti, nonché dall’uso dei segni di paragrafo alternativamente rossi e blu a segnare l’inizio di strofa come nelle canzoni (previsti anche nelle ultime quattro come assicurato dalla doppia lineetta a margine).

In conclusione, il lavoro di A. non solo ci fornisce notevoli spunti nuovi sull’opera dei tre maggiori autori del Trecento letterario italiano, ma soprattutto ci mostra la coesione, la duttilità e la produttività in termini di acquisizioni a livello scientifico, del metodo da lui utilizzato. Un metodo che ha saputo ben armonizzare non solo le sue dirette auctoritates citate in principio, ma, anche, gli spunti migliori della critica e della filologia ‘materiale’ nonché degli studi codicologico-paleografici degli ultimi anni. Ne risulta un lavoro assai denso, che ha bisogno di una lettura lenta e ruminante, ben difficile da riportare in tutte le sue pieghe e implicazioni in una sola recensione.

Maddalena Signorini, Università degli Studi di Roma Tor Vergata

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