Riccardo Saccenti.
Il sapiente e il sovrano. Tommaso d’Aquino nel Paradiso di Dante.
Rome: Carocci, 2023. 128 pp. €15.00.
La costanza con la quale negli anni si sono succeduti gli studi sul Tommaso dantesco o sull’aderenza o meno dell’Alighieri al tomismo è tale da richiedere oggi una motivazione che giustifichi la ripresa di questioni ormai lungamente dibattute. Quella che muove Riccardo Saccenti, docente di Storia della filosofia medievale all’Università degli Studi di Bergamo, lo porta ad indagare, nel recente lavoro Il sapiente e il sovrano. Tommaso d’Aquino nel Paradiso di Dante edito da Carocci, la presenza e il coinvolgimento di Tommaso nei canti del Cielo del Sole (X-XIII del Paradiso) non solo sullo sfondo filosofico-teologico che è prossimo alla terza cantica ma soprattutto in riferimento alle dinamiche politico-culturali proprie della ricezione dell’opera e della figura del Doctor Angelicus tra la data della morte (1274) e quella della canonizzazione (1323).
Nello specifico, Tommaso è esaminato in relazione alla politica culturale e religiosa angioina controllata dall’ascesa al trono di Roberto d’Angiò in cui l’Aquinate “diventa una sorta di icona di una nobiltà ‘guelfa’ e filoangioina, che combina in sé dottrina e obbedienza alla chiesa” (p. 25). Nel far questo Saccenti non rinuncia però alla contiguità con un dibattito da tempo radicalizzatosi sul confronto Tommaso-Dante e che pertiene al presunto tomismo di quest’ultimo, questione che anzi apre, con funzioni introduttive, il volumetto qui discusso. Non solo l’autore ripropone un’utile sintesi bibliografica dei principali dantisti favorevoli all’ortodossia tomista dell’Alighieri, e di contro quelli che la mettono in parte o totalmente in discussione, ma circoscrive anche, contestualizzato al presente di Dante, un excursus con il quale dimostrare quanto sia riduttiva una semplicistica polarizzazione tra anti-tomismo e tomismo. Per dare concretezza storica alle sue ipotesi Saccenti mette a confronto la ricezione della dottrina di Tommaso, a partire dalla prima metà del XIII secolo, tra i domenicani del convento di Santa Caterina di Pisa (capitolo 2) e quelli di Santa Maria Novella di Firenze (capitolo 3).
In linea con l’impostazione didattica interna al convento pisano in cui, tra gli studi teologici, trova posto anche l’interesse per la filosofia naturale della Metafisica aristotelica, il Tommaso letto e commentato tra le maggiori figure dello studium domenicano di Pisa – come Bartolomeo da San Concordio o Giordano da Pisa – è quello che al lumen della fede sovrappone armoniosamente il lumen della ragione naturale. Di contro, il Tommaso recepito dai conventuali di Santa Maria Novella è quello autenticamente teologico, coerente con la mutazione dello studium fiorentino in particularis theologiae, in cui veniva cioè dispensato un insegnamento avanzato di teologia – pertinente è in tal senso l’attività di Remigio de’ Girolami. I domenicani di Santa Maria Novella vedono inoltre in Tommaso quel Doctor sapiens che oltre ad assolvere ad una formativa funzione religiosa era al contempo designato a guida sociale del contesto urbano in cui si trovava la comunità dei frati fiorentini.
Questi due diversi ma complementari modi di intendere la figura di Tommaso e di accoglierne la dottrina si rispecchiano ovviamente nella conformazione dei fondi librari dei cenacoli domenicani vagliati. La validità dell’impostazione dello studio di Saccenti sta infatti nell’accostare ad una ricostruzione teoretica della fortuna di Tommaso nella Toscana dantesca – di fatto astratta per quanto storicamente empirica – una concreta ricognizione dei codici di Santa Caterina e Santa Maria Novella recanti i testi dell’Aquinate: dai commenti all’Angelico di Remigio de’ Girolami o Bernardo di Trilia, al Tommaso commentatore aristotelico di Pisa (Expositio in duodecim libros Metaphysicae del manoscritto 17 della Biblioteca Cathariniana o il numero 18 contenente ad esempio la Sententia libri De anima).
Proprio su quest’ultimo punto si apre, con il quarto capitolo, la seconda parte del lavoro di Saccenti, quella più propriamente dantesca, che riguarda la ripresa del Tommaso interprete di Aristotele in qualità di auctoritas argomentativa nel Convivio e nella Monarchia – si menzionano i procedimenti alla base della discretio per la conoscenza delle verità sacre, la relazione fra intelletto e fortuna, la collocazione dei miracoli nell’ordine divino – e successivamente come soggetto che partecipa attivamente alla costruzione narrativa del Paradiso in qualità di modello di sapientia e humilitas. Combinando poi le due virtù Saccenti ha modo di riflettere sulla nozione di ‘distinzione’ che caratterizza l’interezza del dialogo tra Tommaso e Dante (capitolo 5). Ciò che viene mostrato è come la distinctio, modello per una forma di conoscenza conseguita attraverso l’atto del separare con la ragione soggetti diversi in base a peculiari caratteristiche delle entità conoscenti (è oggetto di analisi in Conv. IV, viii, 1), non sia usata da Dante solamente a livello narrativo (ad esempio nel distinguo tra Francesco e Domenico per rimarcare tanto i tratti propri degli ordini religiosi di riferimento quanto la loro complementarità). Dante vi ricorre, infatti, anche per qualificare il parlare di Tommaso (il suo è un “discreto latino” – Par. XII, 144 – e lo stesso teologo richiama tra l’altro alla ‘distinzione’ in Par. XIII, 112-120) e addirittura per pianificare la stesura di un’intera opera come il De vulgari eloquentia (il “lucidare discretionem” – Dve I, i, 1 – è una delle motivazioni della sua genesi).
L’ultimo capitolo propone, infine, con autorevole sforzo esegetico, una sorta di sintesi delle diverse prospettive di studio sviluppate lungo l’intero lavoro – politiche, teologiche, ermeneutiche – e che confluiscono in una complessiva proposta di lettura che riguarda il dubbio di Dante sulla sapienza di Salomone. È cioè dimostrato come applicando la distintio per differenziare la sapienza di Adamo e Cristo da quella del Re d’Israele Tommaso riesca non solo ad appianare le perplessità di Dante sulla presenza di quell’anima nel Cielo del Sole ma al contempo ad istituire anche un confronto con i partecipanti della politica angioina. Dal contrasto tra la sapientia salomonica e la nozione di rex sostanziata da Roberto d’Angiò scaturisce dunque un’antitesi etica e dottrinale in cui “[a]lla figura di Roberto, che è buon reggitore perché dotato di una sapientia simpliciter, il Tommaso dantesco contrappone un Salomone dotato di una sapientia secundum quid e caratterizzata dal principio della sufficientia, cioè dal suo essere proporzionata all’esercizio della funzione regia e non confusa con quella dei doctores e dei magistri” (pp. 94-95).
Matteo Maselli, Università di Macerata